I medici e gli infermieri costretti al silenzio
Proviamo a fare un esercizio di empatia. Proviamo a metterci nei panni di un medico o di un infermiere per bene (condizione, quest’ultima, essenziale per la riuscita dell’esercizio) dell’Alessandrino. Partiamo.
A dicembre cominciamo a notare alcune polmoniti sospette: difficili da curare e molto aggressive. Il numero di chi presenta certi sintomi cresce rapidamente. Notiamo che, con il susseguirsi dei giorni, quella polmonite così forte la prendono anche amici e parenti. Ma c’è di più: pure i nostri colleghi finiscono per ammalarsi. È un virus e la sua viralità è impressionante.
La prima cosa da fare è proteggersi. Nei magazzini degli ospedali spariscono mascherine, guanti e gel igienizzanti. Poi arriva una circolare dai dirigenti: guai a chi spaventa la gente. Solo chi è a contatto con un paziente Covid può indossare i dispositivi di protezione. Ma noi ce ne freghiamo di quella circolare. Questi non si sono resi conto con che cosa abbiamo a che fare.
I dati crescono vertiginosamente. Dalle case di riposo fioccano richieste di aiuto e da noi, negli ospedali, arrivano contagiati su contagiati. È pandemia. Adesso siamo obbligati a mettere ogni genere di dispositivo di protezione. Che però non abbiamo… Allora si mobilitano i cittadini e alla bell’e meglio riusciamo a tirare avanti. Molti li salviamo, ma il conto è altissimo e va pagato in vite umane. Per alcuni dobbiamo fare scelte dolorose: non ci sono i respiratori per tutti…
Finiti i turni, durante i quali abbiamo affrontato il dolore dei pazienti e le loro paure mischiate alle nostre, torniamo a casa dalle nostre famiglie con l’angoscia di contagiare anche loro perché non sappiamo se siamo positivi al Sars Cov 2 o meno: nessuno ci ha fatto fare le analisi. Beninteso, le abbiamo chieste, ma ci hanno risposto con un sorrisetto che… vabbè lasciamo perdere. Che rabbia tutto questo!
L’impossibilità di poter lavorare come dovremmo; l’impossibilità di essere più utili di quanto non lo siamo ora… I cittadini devono sapere in che condizioni viviamo e lavoriamo. Lo dobbiamo raccontare ai giornali! Che ne diano notizia a tutti! Oppure… Oppure è meglio lasciar perdere, perché i colleghi che lo hanno fatto sono stati trasferiti, o messi in condizione di avere una vita lavorativa ancora peggiore.
Forse è meglio tacere, sperare che tutto questo passi presto e confidare nella labilità della memoria dove le responsabilità personali e quelle collettive possono inabissarsi per sempre. Come vi sentite ora?
Alberto Marello