Buon compleanno, Franca Valeri!
I suoi personaggi femminili hanno parlato e sanno parlare ancora oggi al pubblico, perché autentiche sotto la patina comica e brillante, spesso un po’ claudicanti nelle loro relazioni professionali, amicali e affettive, sempre attuali nelle loro divertite incertezze
CINEMA E TV – La “Sora Cecioni”, la “Signorina Snob”, “Cesira la manicure”: sono solo tre delle caratterizzazioni femminili più amate e apprezzate nella lunghissima carriera artistica di Franca Maria Norsa, in arte Franca Valeri, che il 31 luglio scorso ha tagliato il considerevole traguardo dei cento anni.
Nell’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”, lo scorso giugno, la straordinaria attrice (di teatro, cinema e televisione, nonché regista di opere liriche) ha messo in campo il suo primo ricordo: «Mio nonno Giulio che mi porta una torta. Ma io detestavo le torte. Continuavano a regalarmi dolci che non mi piacevano. Nonna Francesca invece mi regalava le bambole. Ma non mi piacevano neppure le bambole. Le chiudevo tutte in un cassettone».
Franca Valeri nasce a Milano nel 1920: la famiglia è di estrazione borghese, la madre Cecilia cattolica, il padre Luigi – ingegnere alla “Breda” – ebreo.
L’amore per la recitazione nasce in lei sin dalla più tenera età, ma con la promulgazione delle leggi razziali e lo scoppio della seconda guerra mondiale è costretta a mettere temporaneamente da parte la sua passione. Mentre padre e fratello (Giulio, il primogenito) cercano riparo in Svizzera, la giovane Franca rimane a Milano con la madre, costretta a nascondersi prima e poi ad assumere una falsa identità (quella della figlia di una certa Cecilia Pernetta, di Pavia): «Papà era ebreo», racconta la Valeri. «Ricordo quando lesse sul giornale la notizia delle leggi razziali e pianse. Fu il momento più brutto della mia vita. Non poter più andare a scuola, non poter più andare a teatro. Preparai l’esame a casa, da privatista. Prima andavo al Parini. Provai a dare l’esame al Manzoni, sperando che non se ne accorgessero. Non se ne accorsero».
Per qualche tempo la futura attrice vive insieme ad altri rifugiati in una casa bombardata di via Mozart, insieme ai gatti Mignina e Milù, in seguito si trasferisce da amici. A guerra conclusa («Per me la giovinezza incominciò il 25 aprile: una giovinezza tardiva. Ma è stata bella. In quell’Italia tutto pareva possibile»), finalmente il papà e il fratello fanno ritorno dalla Svizzera e la Valeri inizia a lavorare come interprete al comando americano, forte dei suoi studi di inglese e francese.
Non dimentica, tuttavia, la sua vocazione principale e per questo motivo parte alla volta di Roma, esordendo in teatro con il nome d’arte di Franca Valeri, appunto, in omaggio al poeta Paul Valéry e per accontentare il padre che è titubante sull’uso del cognome di famiglia in arte. Non viene ammessa all’Accademia d’arte drammatica, ma in compenso fonda insieme al regista Vittorio Caprioli (suo futuro marito, che conosce fortuitamente alla stazione Termini e con il quale girerà tra il 1961 e il 1967 alcuni film di successo, firmandoli anche come autrice: ad esempio, quel Parigi o cara che nei panni dell’eccentrica prostituta Delia la farà assurgere al ruolo di icona del camp) e Alberto Bonucci il Teatro dei Gobbi, che calcherà le scene parigine.
Arriva, poi, anche la fondamentale esperienza in radio, che le permette di dar vita a quelle figure femminili di grande verve e sicuro impatto comico, animate da un pizzico di femminismo ante litteram, che in un futuro prossimo diventeranno i suoi cavalli di battaglia anche sul piccolo schermo: «Non sono mai stata femminista, semmai maschilista. Sono anche diventata un’icona gay, anche se non ho mai capito perché. Ma sono fiera di esserlo».
Nel 1950 la Valeri approda sul grande schermo con Luci del varietà, di Federico Fellini e Alberto Lattuada, opera prima del regista riminese. Da quel momento in poi la sua carriera cinematografica è in perenne ascesa: nel 1952 lavora con Totò in Totò a colori («Parlavamo di cani. Li ho sempre amati tanto. Lui ne aveva moltissimi, forse duecento…»), nel 1955 con Dino Risi ne Il Segno di Venere, di cui a distanza di anni ancora rammenta la nascita: «Scrissi un film su due sorelle, e lo portai a Carlo Ponti. Rispose: “Bella trama, perfetta per Sophia, ma tu e lei siete troppo diverse per fare le sorelle. Diventerete cugine. Una cugina napoletana e una milanese: si può fare”. Nacque così Il segno di Venere».
Dalla feconda collaborazione e amicizia con Alberto Sordi, invece, vedono la luce Piccola posta di Steno (1955), dove la Valeri finta nobildonna polacca elargisce consigli amorosi dalle pagine di un rotocalco femminile, il già citato Il segno di Venere e soprattutto Il Vedovo (1959), in cui nei panni della cinica e spietata Elvira – donna d’affari milanese – l’attrice tiranneggia il malcapitato consorte Alberto (Sordi), ambizioso ma velleitario industriale romano, dandogli del “Cretinetti”.
Con Vittorio De Sica, insieme a lei ne Il segno di Venere, nasce un’amicizia profonda: «Vittorio De Sica era l’amico più caro».
I personaggi femminili incarnati dalla Valeri alla radio, al cinema, in televisione, hanno parlato e sanno parlare ancora oggi al pubblico, perché autentiche sotto la patina comica e brillante, spesso un po’ claudicanti nelle loro relazioni professionali, amicali e affettive, sempre attuali nelle loro divertite incertezze.
Lei, Franca, che ha esplorato un secolo di vita, d’arte e di cultura, coltiva ancora un desiderio: «Vorrei tanto tornare un’ultima volta all’opera. Il mio sogno sarebbe rivedere ancora la Bohème».
Una selezione delle pellicole più rappresentative dell’attrice è disponibile in fruizione gratuita sulla piattaforma di Rai Play.