Olivia de Havilland e Melania Hamilton: la costruzione di un mito cinematografico
«Penso che interpretare cattive ragazze sia una noia; ho sempre avuto maggior fortuna con i ruoli da brava ragazza perché richiedono di più da un'attrice»
CINEMA – Melania Hamilton o Rossella O’Hara? La domanda su quale sia la più convincente, delle due eroine protagoniste di Via col vento (Gone with the Wind, 1939) – tra i più grandi successi della storia del cinema mondiale, vincitore di ben dieci premi Oscar – è oziosa, nonostante continui immancabilmente a ripresentarsi al pubblico a partire dall’uscita sugli schermi del kolossal di Victor Fleming.
A distanza di ottantuno anni dalla “prima” di Via col vento, avvenuta il 15 dicembre 1939 al Grand Theatre di Atlanta, in Georgia, e di ottantaquattro (1936) dalla pubblicazione del romanzo-fiume di Margaret Mitchell a cui il film è ispirato, può essere legittimo ritornare pe un momento a indagare le contrapposte personalità – in realtà rovesci della stessa medaglia – di Melania e Rossella (Melanie e Scarlett nella versione originale inglese), ora che Olivia de Havilland – indimenticata interprete della prima – è venuta a mancare lo scorso 26 luglio, all’età di 104 anni.
Descritta già nello stesso libro della Mitchell come fragile, sia a livello fisico che caratterialmente, Melania pare l’incarnazione di una femminilità dolce e remissiva: l’opposto, insomma, della cognata Rossella (vedova di suo fratello Charles, morto di polmonite e morbillo mentre presta servizio nella Guerra civile americana), interpretata da Vivien Leigh: un concentrato di energia istintiva, sovranamente egoista, dominata dal principio del piacere eppure necessaria ai tempi in cui viene ambientata la vicenda, perché tenace, indomita, coraggiosa.
È palese, invece, a uno sguardo più attento, che Melania la dolce non è affatto una donna passiva o conformista, bensì dotata di una forza differente rispetto a quella sfacciatamente ostentata da Rossella, più riflessiva, matura e profonda, in grado di scavare la roccia con lentezza, senza inutili contraccolpi; il che significa – nell’infido e ultraconservatore mondo dei latifondisti degli Stati Uniti del sud – raggiungere i propri obiettivi senza perdere il rispetto della collettività.
La sotterranea grinta di Melania è visibile in molti snodi narrativi: nel film di Fleming, in particolare, quando sceglie senza esitazione di lavorare come infermiera all’ospedale dei feriti di guerra, non sottraendosi – come invece fa Rossella – neppure di fronte all’intervento di amputazione della gamba di un soldato; oppure mentre aiuta la cognata ad occultare il corpo del militare che la stessa ha ucciso per difendersi al loro ritorno a Tara, continuando a difenderla a spada tratta nei confronti di chiunque la critichi, anche se a ragion veduta.
Melania, a dispetto della salute e del fisico cagionevoli, non si sottrae alle fatiche materiali e morali, non disdegnando affatto chi viene tradizionalmente disprezzato dalla società, come l’avventuriero Rhett Butler (Clark Gable) o la prostituta Bella Watling (Ona Munson).
Del resto, Olivia de Havilland, che le ha offerto le sue fattezze morbide e regolari, non è mai stata da meno in quanto a forza di volontà, in tutta la sua lunga carriera cinematografica. Nata a Tokyo il primo luglio 1916, da genitori di origine britannica, sorella maggiore dell’attrice Joan Fontaine (con la quale coltivò sempre una certa rivalità), la de Havilland è stata un’interprete versatile, che ha saputo destreggiarsi fra ruoli femminili più tradizionali (vedi la Catherine Sloper de L’ereditiera di William Wyler, 1949, per cui vinse il secondo Oscar dopo quello ricevuto nel 1947 in A ciascuno il suo destino di Mitchell Leisen) e parti più “nere” e ambigue, come in Lo specchio scuro di Robert Siodmak – 1946 – nella doppia performance legata alla storia di due sorelle gemelle, una virtuosa, l’altra con problemi mentali.
Non smentendo sin da giovane la sua forza di carattere, un’Olivia diciottenne, osteggiata dal patrigno che vuole impedirle di intraprendere la carriera cinematografica, sceglie di andare via di casa per accettare il ruolo di Elizabeth Bennet in una messinscena scolastica di Orgoglio e pregiudizio a Saratoga, in California.
Dopo essere stata reclutata alla metà degli anni Trenta dalla Warner Bros. per le sue produzioni in costume, in coppia con Errol Flynn (tutte di straordinario successo: da Capitan Blood, La carica dei seicento e il campione d’incassi La leggenda di Robin Hood di Michael Curtiz a Avorio nero di Mervin Le Roy), la De Havilland, ventiduenne, è pronta per una nuova sfida: è il 1938 e si sta mettendo in produzione Via col vento, per cui si rende necessario convincere il potente Jack L. Warner a lasciarle la libertà contrattuale di lavorare per l’altrettanto potente produttore e rivale David O. Selznick, che la richiede per il ruolo di Melania. Un’altra scommessa vinta per l’attrice, che riceverà una nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista.
Un’altra capitale battaglia vinta da Olivia de Havilland è rappresentata dalla causa legale che intenta nel 1943 contro la propria casa di produzione, la già citata Warner Bros., che pretende di tenerla legata a sé per altri sei mesi nonostante il suo contratto stia per scadere, come forma di risarcimento per il rifiuto di alcuni ruoli che le erano stati proposti.
Olivia riesce laddove persino la granitica diva Bette Davis, sua cara amica, aveva in precedenza fallito: la Corte d’Appello della California riconosce per la prima volta i diritti delle star di Hollywood attraverso la cosiddetta “Regola dei sette anni”, conosciuta da quel momento in poi come “Legge de Havilland”. Si tratta di una svolta epocale per il meccanismo di impiego del lavoro attoriale nell’epoca dello studio system, sin dalla sua nascita castrante e punitivo nei confronti dei propri divi.
Il cinema della Golden Age è costretto a fare i conti con la tenacia di uno dei suoi membri, proprio quella de Havilland dallo sguardo limpido e rassicurante, lanciata nel firmamento hollywoodiano grazie alla sua aria da brava ragazza: «Interpretare le brave ragazze era difficile negli anni Trenta, quando la moda era di interpretare cattive ragazze», sosteneva Olivia stessa. «In realtà io penso che interpretare cattive ragazze sia una noia; ho sempre avuto maggior fortuna con i ruoli da brava ragazza perché richiedono di più da un’attrice».