“Lasciami andare”: l’amore oltre il tempo
CINEMA – Aspettami ed io tornerò ad onta di tutte le morti. E colui che ormai non mi aspettava, dica che ho avuto fortuna. Chi non aspettò non può capire come tu mi abbia salvato in mezzo al fuoco con la tua attesa. Solo noi due conosceremo come io sia sopravvissuto: tu hai saputo aspettare semplicemente come nessun altro (Konstantin M. Simonov)
C’è una Venezia “reale” – dei turisti che affollano piazza San Marco, i ponti e le calli, il Lido – nitida come una fotografia o una cartolina stampata di fresco; ma c’è anche una Venezia più sfocata e indefinibile, misteriosa, immersa nella foschia che sale dall’acqua e che tutto avvolge.
Sono i due ritratti della città lagunare che ci offre il regista di Marradi Stefano Mordini (l’autore di Provincia meccanica, Acciaio e Gli infedeli) nel suo ultimo lungometraggio, che ha chiuso la 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso settembre.
Un dualismo insistito, reiterato, che traduce sul piano delle immagini un contraltare simbolico e immateriale molto chiaro: da un lato la verità scientifica, le spiegazioni razionali, la logica; dall’altro il non argomentabile o riproducibile con i mezzi della scienza, la speranza, la fede.
Anche l’atteggiamento e lo sguardo di Mordini regista oscillano, senza mai inclinarsi in maniera più netta per un verso o per un altro, tra queste due opposte prospettive e il risultato è una pellicola di un certo fascino ma anche ambivalente, né ghost story né thriller psicologico o – in ultima analisi – entrambe le cose. Quanto al riferimento al celebre A Venezia…un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg (1973), vale solo per lo spunto narrativo (la coppia che vive la terribile esperienza della perdita di un figlio: e non dimentichiamo che il soggetto elaborato dallo stesso regista, Francesca Marciano e Luca Infascelli è tratto da un romanzo, You Came Back di Christopher Coake ), dal momento che – a differenza di Roeg – Mordini non sceglie di scivolare dentro una sorta di psicodramma paranormale-orrorifico a tinte forti, mantenendosi fin troppo prudentemente, forse, entro una zona d’ombra narrativa che lascia la porta aperta a molteplici interpretazioni.
La vicenda è quella di Marco, ingegnere edile (Stefano Accorsi), e Clara (Maya Sansa), all’inizio del film una coppia trasferitasi a Venezia per motivi di lavoro, insieme al loro bambino Leo. Ad accoglierli nella Serenissima è una casa dalle fondamenta non troppo solide, dagli eccessivi chiaroscuri: una casa che non vivranno a lungo, dal momento che Leo morirà in un tragico incidente e i suoi genitori si separeranno, non reggendo all’onda d’urto di quel dramma.
A distanza di anni, ormai sereno – a differenza di Clara – in una nuova dimora, con un nuovo amore – Anita (Serena Rossi) – che presto lo renderà di nuovo padre, Marco si vede comparire davanti Perla (Valeria Golino), la proprietaria della sua vecchia casa, che lo mette a parte di un’incredibile, presunta verità legata a un’impalpabile ma continua “presenza” domestica e al ricordo di Leo.
Il cast di attori messo insieme dal regista lavora con solida esperienza e affiatamento per incarnare le differenti espressioni di un dolore così privato eppure universale: spiccano, tra le figure femminili, la Sansa e la Golino, alle quali vengono offerte maggiori possibilità di approfondimento dei propri personaggi, mentre la Anita di Serena Rossi rimane sempre un po’ a margine e Stefano Accorsi mette a disposizione del disagio e dell’incredulità raziocinante di Marco quel suo volto da eterno ragazzo, all’improvviso stanco, invecchiato.
Il finale è – come si suol dire – “aperto”: allo spettatore viene concessa la libertà di propendere per un’interpretazione della storia, piuttosto che per un’altra. Non ci sono giudizi o tentativi di spiegazione, soltanto racconto.
In un’intervista per il sito Movieplayer, Stefano Mordini ha sorprendentemente confessato di aver vissuto in passato un’esperienza analoga a quella raccontata nel suo film: «Io abitavo in una casa a Ravenna, che avevo comprato da solo: dopo due, tre anni, di notte, veniva qualcosa che si appoggiava sul letto. Sentivo che diceva: io mi chiamo Beatrice e abito dove tu hai fatto il bagno. Per tanti anni ho pensato fosse vero e siccome ci credevo lasciavo la tv accesa e il telecomando lì, per vedere se si spegneva la tv. Ogni tanto tornavo ed era spenta, ma non so bene come succedeva. La casa l’ho venduta. Dicevo sempre ai miei amici: si chiama Beatrice».
Valeria Golino ha, invece, concluso: «Non mi è mai successo di percepire una presenza. Sospettarlo sì: che poi è quello il rapporto che si ha con l’arcano. Il sospetto che ci sia. Penso che, per pochi secondi, sia successo a tutti: stare in un luogo e sentirsi a disagio. Che poi tu ci creda veramente è un’altra cosa: penso ci sia questa dicotomia continua tra voler cercare l’altrove e allo stesso tempo avere timore di questo altrove. Viviamo in un limbo: un po’ lo rimuovi, un po’ invece lo vai cercando. Tutti vogliamo incantarci: per la bellezza, per il mistero. Fa parte dell’essere umano: perché in qualche modo in quell’altrove, che ci fa così paura e a cui forse non crediamo, c’è anche la speranza che esista un Dio. Perché se esiste quello allora esistono anche tante altre cose».
Lasciami andare
Regia: Stefano Mordini
Origine: Italia, 2020, 98’
Soggetto: dal romanzo You Came Back di Christopher Coake
Sceneggiatura: Stefano Mordini, Francesca Marciano, Luca Infascelli
Cast: Stefano Accorsi, Valeria Golino, Maya Sansa, Serena Rossi, Antonia Truppo, Lino Musella, Elio De Capitani
Scenografia: Luca Merlini
Costumi: Marija Tosic
Fotografia: Gigi Martinucci
Montaggio: Massimo Fiocchi
Musiche: Fabio Barovero
Suono: Francesco Liotard
Produzione: Roberto Sessa per Warner Bros. Entertainment Italia, Picomedia
Distribuzione: Warner Bros. Pictures