Afghanistan, il rimorso dell’Occidente
Dialogo con il filosofo novese Michele Maranzana
Spesso sono le immagini, prima ancora delle parole, a rendere indelebile nella memoria collettiva un evento. È il caso dell’Afghanistan, dell’aereo decollato dall’aeroporto di Kabul il 16 agosto, preso d’assalto dai civili afghani, nella vana speranza di aggrapparvisi per fuggire il più lontano possibile da una terra riconquistata dai talebani.
Vent’anni dopo gli attentati alle Torri Gemelle del 2001 ecco un’altra versione di quella storia da parte degli Usa, un’altra immagine che si trasforma in un simbolo, la cui lettura geopolitica appare più che mai complessa.
Eppure lo scenario afghano pone il pensiero critico dell’uomo di fronte a poche certezze e molti nodi la cui genesi è da ricercarsi in un passato ben più remoto rispetto ai due decenni sopracitati, perché se iniziare una guerra appare più facile che finirla, oggi può essere utile ricercare nuovi strumenti interpretativi per leggere il presente, fra questi il pensiero filosofico, in grado di porsi al di là di ogni facile polarizzazione.
Può la filosofia indagare la complessità di questo scenario geopolitico dunque?
Lo abbiamo chiesto a un filosofo, il Dott. Michele Maranzana, insegnante e preside del Liceo Edoardo Amaldi di Novi Ligure.
L’intervista
Caos e incertezza, in un momento di transizione come questo generano un senso di paura e indeterminatezza: gli sviluppi geopolitici di questi ultimi giorni portano l’Occidente a riflettere su temi quali democrazia, libertà, diritti cosa ci insegna il pensiero filosofico a riguardo?
Di cosa può rendere ragione la filosofia, che non possa la scienza politica? Nella risposta a tale quesito troviamo una realtà di malessere profondo della coscienza dell’Occidente, la quale, di fronte all’Afghanistan – e a tutte le situazioni geopolitiche del terzo millennio che presentano con esso profonde analogie – chiede non solo una analisi e una comprensione di ciò che accade, ma anche un pensiero in grado di indicare come le cose «dovrebbero essere». E qui si colloca la filosofia come disciplina capace di riflettere e non solo analizzare, di produrre un punto di vista unitario su un fenomeno e interrogarlo criticamente, di esprimere anche giudizi di valore e morali. Trovo vi sia analogia fra questo bisogno di interrogare la storia e la politica con la lente della filosofia e la celebre idea di Claude Levi-Strauss dell’antropologia come figlia del rimorso dell’Occidente verso i popoli di cui consumava l’etnocidio.
Perché rimorso?
Perché i cittadini dell’Occidente democratico sono eredi di un sogno di libertà, uguaglianza, giustizia, pace che dal Secolo dei Lumi ha preso la forma di dichiarazioni solenni, tese a sancire progressivamente i diritti di ogni essere umano, indipendentemente dalle sue origini e caratteristiche, e condannate ad affondare, ogni volta, nella violenza e nel sangue. Testardamente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il sogno ha assunto la forma della Grande Promessa di un “mai più”. Protagoniste di questo movimento le potenze vincitrici, primi fra tutti gli Stati Uniti, che fondavano le Nazioni Unite e proclamavano nel 1948 l’impegno a incarnare nella storia una Dichiarazione universale dei diritti umani recante in preambolo le seguenti parole: “Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.
Al momento l’Afghanistan non è più negli interessi degli Stati Uniti, eppure libertà e autodeterminazione sono costrutti sociali complessi, qual è la loro radice umana e quanto la trazione Oriente-Occidente ne influenza i processi?
Le guerre combattute a partire dalla seconda metà del Novecento dai paesi democratici hanno avuto nomi suggestivi: difesa e diffusione della democrazia, operazioni di polizia internazionale, lotta al terrorismo. Ogni volta queste operazioni sono state sostenute presso le opinioni pubbliche con quelle che parafrasando Lyotard possiamo chiamare “grandi narrazioni” coerenti con lo spirito della Dichiarazione: ristabilimento della pace, della libertà e dei diritti fondamentali, tutela di popolazioni inermi. Ma i loro esiti sono stati spesso infausti: sostituzioni di regimi con altri regimi, sistemi democratici che non attecchiscono, stati di guerriglia permanente, dissesto politico ed economico di interi territori. E, infine, il disimpegno, accompagnato da un discorso in cui all’universalismo degli ideali viene sostituita, con un capovolgimento drammatico, la realpolitik degli interessi di un solo paese.
E così, oggi, nel paese dove l’Occidente era andato per permettere nuovamente agli aquiloni di volare e alle donne di studiare, sono tornati coloro che avevano proibito l’una e l’altra cosa. I valori universali (dell’Occidente, perché, con buona pace degli estensori delle Dichiarazione, una larga parte dell’umanità di questo non è convinta) sono stati abbandonati a se stessi da chi ne faceva bandiera, con tutte le afghane e gli afghani che ci hanno creduto, rischiando spesso la morte o effettivamente perdendo la vita.
Quale conforto ci può offrire la filosofia dinanzi alla violenza della storia, alla profanazione quotidiana dei corpi e delle vite che desta scandalo solo quando le vittime appartengono all’Occidente?
Pochissimo e moltissimo, forse. Tracce di senso, una cornice, una struttura che connette, un modo di pensare che ci permetta di uscire dal silenzio attonito dall’afasia dell’impotenza.
L’Afghanistan può essere letto come l’ennesimo banco di prova di quanto ha affermato un filosofo del diritto, Baldassarre Pastore, in un intervento di diversi anni fa su Jura Gentium: “La violazione dei diritti si nutre di violenza, distruzioni, crudeltà, morte, sfruttamento, sopraffazioni, abusi. La risposta a tale violazione richiede la ricerca di mezzi efficaci che devono sottostare ad un vincolo di coerenza connesso proprio al rispetto generalizzato ed eguale dei diritti. Coerenza vuole che l’intervento militare non possa essere considerato uno strumento di riparazione dei diritti violati.
Ciò, nella direzione di un ripensamento profondo dell’assetto delle relazioni internazionali nell’età dell’interdipendenza e della corresponsabilità planetaria, rinvia all’impegno ed alla capacità progettuale orientati ad una pratica di condizionamento, di pressione e di intervento non violento. Se i diritti sono configurabili come condizioni che rendono possibile l’iniziativa umana, attraverso l’eliminazione della sofferenza socialmente generata, che erode le basi della dignità e della reciprocità dei riconoscimenti, e la garanzia, per tutti gli esseri umani, dello status di soggetto agente che persegue i propri progetti di vita, allora, per ragioni di coerenza, l’uso della guerra va bandito proprio perché annulla ogni iniziativa umana. L’universalità può forse essere minimale, ma è sempre, se presa sul serio, esigente.”
Se crediamo a queste parole, ciò che accade oggi in Afghanistan, questa immensa tragedia umana che ripercorre ancora un volta sentieri antichissimi, ha nell’universalismo dell’Occidente e nel suo modo attuale di praticarlo, sotto l’egida degli Stati Uniti, la sua radice principale. La filosofia, forse, ci insegna che solo attraverso questa e altre comprensioni fondamentali ma non ovvie ci possiamo mettere in cammino per superare la dimensione del rimorso, ripensare e ricostruire la storia e il nostro destino nel dialogo interculturale anziché nel sangue.