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Pier Giorgio Maggiora  
8 Giugno 2025
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Il saggio

Storia economica e sociale di Valenza negli anni Novanta

L'approfondimento del professor Maggiora

VALENZA – Alla fine del Novecento, l’Italia si trovava a un bivio economico cruciale. L’economia nazionale stentava a proiettarsi con vigore nei settori avanzati, quelli che avrebbero potuto garantire crescita e prosperità durature. Un fardello significativo pesava sui salari, soffocati da una tassazione eccessivamente gravosa, tra le più alte a livello globale. Questa pressione fiscale, inevitabile per sostenere un debito pubblico elefantiaco, accumulato nel corso degli anni, si sommava a contributi sociali da record, indispensabili per far fronte alle esigenze di un paese demograficamente mutato, con una popolazione sempre più anziana e bisognosa di pensioni.

Le turbolenze della crisi globale, abbattutesi come una tempesta, colpivano in modo particolarmente violento l’industria manifatturiera, spina dorsale dell’economia italiana e serbatoio di competenze tradizionali. All’interno di questo comparto, l’oreficeria, con la sua ricca storia e il suo valore artigianale, subiva contraccolpi significativi. A Valenza, in particolare, l’oreficeria rappresentava un pilastro fondamentale, garantendo i due terzi dell’occupazione totale, una percentuale doppia rispetto alla media nazionale.

La dipendenza del territorio da questo settore rendeva la città particolarmente vulnerabile alle fluttuazioni del mercato e alle pressioni competitive. Valenza sopportava una profonda e radicale trasformazione, un vero e proprio terremoto che investì il tessuto economico, sociale e ambientale. La grande illusione di una crescita inarrestabile e di un benessere diffuso si era infranta contro la dura realtà della crisi. I ceti medi, tradizionalmente il motore dell’economia e della stabilità sociale, si ritrovarono in progressiva erosione, scivolando verso fasce di reddito sempre più basse e precarie. La perdita di posti di lavoro, una piaga in costante espansione, generò notevoli problemi di natura sociale, alimentando disuguaglianze, insicurezza e frustrazione: un declino apparentemente inesorabile.

Il distretto orafo valenzano, un tempo fiore all’occhiello dell’artigianato italiano, si trovava a lottare per la sopravvivenza, incapace di rispondere efficacemente agli attacchi sferrati da nuovi competitori a livello globale. Questi concorrenti, spesso provenienti da paesi con costi di produzione drasticamente inferiori, potevano avvalersi di strategie aggressive e sleali, come il dumping dei prezzi, la svalutazione della qualità e persino il ricorso a vere e proprie pratiche di contraffazione illegali dei prodotti. L’utilizzo di manodopera a basso costo, la frammentazione del processo produttivo e la riduzione dei contenuti qualitativi rappresentavano una minaccia diretta all’eccellenza artigianale valenzana, basata sulla tradizione, sulla competenza e sulla cura del dettaglio. La sfida per Valenza era quindi quella di reinventarsi, di trovare nuove strategie per competere in un mercato globale sempre più spietato e complesso, preservando al contempo la propria identità e il proprio patrimonio artigianale.

Nell’illusione di essere i più belli e i più furbi del reame, intrappolati in una bolla di autocompiacimento, molti produttori orafi erano quasi separati dalla realtà. Purtroppo, questa cecità volontaria fu ulteriormente aggravata da una pioggia incessante di numeri e statistiche che, presentate con fare autorevole, si rivelarono ingannevoli. Questi dati maneggiati, da considerare estremamente variabili e soggetti a interpretazioni distorte, hanno reso impossibile una valutazione obiettiva della situazione. Essi si ergevano come un muro, simboleggiando una Valenza economica finta, una percezione distorta della realtà, impedendo un’analisi accurata e concreta. Di conseguenza, progettare cure efficaci e ritrovare lo slancio necessario per superare le difficoltà diventava un’impresa ardua, ostacolata dalla nebbia densa di informazioni fuorvianti e promesse ingannevoli, senza dirlo apertamente, s’intende. L’inganno statistico, quindi, non è stato solo un errore, ma un vero e proprio sabotaggio del processo di rinascita.

Negli anni Novanta, la società valenzana subiva trasformazioni sociali profonde che si riflettevano direttamente sulla composizione delle famiglie e sullo stile di vita dei suoi abitanti. Lontana dall’immagine idilliaca della famiglia “Mulino Bianco”, la dimensione media dei nuclei familiari si era ridotta drasticamente.

Nel 1991, la famiglia media valenzana contava soltanto 2,51 componenti, un indicatore chiaro del cambiamento in atto. La tipologia di famiglia più diffusa stava diventando quella composta da due persone, una tendenza in forte crescita, con 2.772 unità nel 2001 rispetto alle 2.496 del 1991, arrivando a rappresentare poco meno di un terzo del totale. Ma la vera novità era l’affermazione della famiglia unipersonale, sempre più spesso definita “single”. Questo gruppo, composto da individui che vivevano soli, era in netta espansione, passando da 2.118 nel 1991 a 2.661 nel 2001, un segnale inequivocabile di un’evoluzione sociale verso una maggiore individualizzazione.

Parallelamente a questi cambiamenti demografici, si osservava una crescente secolarizzazione e una crisi dei valori tradizionali. La deviazione del cristianesimo in culto umanitario e l’assenza di un forte senso religioso diventavano sempre più evidenti, la morale si faceva più sfuggente, soggetta a interpretazioni diverse e contrastanti, dipingendo un quadro a tratti inquietante della società. La carenza di vita intima si faceva sentire, prefigurando scenari di relazioni interpersonali sempre più fluide e orientate verso l’amore libero, come si sarebbe manifestato pienamente con le tendenze trans-femministe degli anni successivi. In sostanza, i segnali di future difficoltà e cambiamenti radicali erano già ampiamente presenti e percepibili. A ciò si aggiungeva l’aumento delle coppie che sceglievano di non formalizzare la loro unione attraverso il matrimonio, sottolineando ulteriormente la messa in discussione dei modelli familiari tradizionali.

La vita a Valenza, inoltre, presentava delle lacune significative. Si evidenziava una grande scarsità di opportunità di intrattenimento in città, un problema che costringeva oltre la metà dei giovani residenti a spostarsi al di fuori dei confini valenzani per trovare svago e divertimento. La chiusura del teatro nel 1994 e l’assenza di un cinema crearono un vuoto culturale e sociale, privando i giovani di spazi vitali per l’incontro, la socializzazione e la condivisione di esperienze con gli amici. La mancanza di alternative di intrattenimento contribuì a un senso di isolamento e di mancanza di opportunità per la crescita personale e sociale.

Il futuro si prospettava incerto, con nubi che cominciavano ad addensarsi soprattutto sul settore del commercio al dettaglio. Le attività tradizionali, pilastri dell’economia locale, erano particolarmente vulnerabili e soffrivano la concorrenza delle nuove forme di commercio e delle grandi catene distributive. La difficoltà di adattarsi ai cambiamenti del mercato e la mancanza di investimenti in innovazione mettevano a rischio la sopravvivenza di molte piccole imprese, minacciando il tessuto economico e sociale della città.

Il commercio al minuto, un tempo cuore pulsante di Valenza, si trovava a fronteggiare sfide senza precedenti, preannunciando un periodo di transizione e incertezza. L’economia di Valenza, pur mantenendo una sua specificità legata all’eccellenza orafa, si trovava ad affrontare sfide significative in un contesto di mercato in rapida evoluzione. Un elemento di preoccupazione era il rafforzamento commerciale dei comuni limitrofi, i quali sembravano beneficiare di un tasso di crescita superiore a quello registrato nella stessa Valenza.

Tra le criticità rilevate all’interno della città, emergeva con forza la questione dei prezzi al consumo, considerati eccessivamente elevati rispetto alla media e accompagnati da una scarsa diversificazione dell’offerta. Questa combinazione di fattori scoraggiava i residenti, limitando il potenziale di crescita del settore del commercio al dettaglio. L’apertura di nuovi supermercati rappresentava una risposta parziale a questo problema.

La contrazione della domanda nel settore della produzione orafa, cuore pulsante dell’economia valenzana, innescò un interessante fenomeno di riconversione: la proliferazione di negozi di gioielleria. Questi punti vendita rappresentavano una strategia di diversificazione del business, offrendo a certe aziende orafe la possibilità di compensare le perdite derivanti dalla diminuzione delle commesse attraverso la vendita diretta al consumatore finale.

Le autorizzazioni commerciali al minuto per alimentari erano circa cento, le non alimentari intorno ai trecento. C’erano circa sessanta barbieri e parrucchiere e una settantina di bar ristoranti, sottoposti a vincoli sempre più stretti e a tanta fumisteria, a dir poco stravagante e singolare.

All’inizio degli anni Novanta, le aziende agricole a Valenza erano 681 (in provincia 35.234) e la superficie agricola utilizzata era di 2.814 ha (in provincia 184.361), su una superficie totale di 4.152 ha. In questi anni, il comparto ha quasi raddoppiato la produzione, pur a fronte di una riduzione degli addetti, e, diversificando le coltivazioni, reagì alla tendenza al contenimento e ai divieti, le cosiddette quote, della politica agricola comunitaria. Nel corso del decennio le aziende complessive scenderanno dalle 681 alle 122. Molti valenzani pensavano che il mondo agricolo fosse una tradizione da cui staccarsi, poiché lo associavano impropriamente a simboli frugali di miseria.

La scuola superiore era diventata per molti un dispositivo comodo per «parcheggiare» tanti giovani in età adolescenziale, nell’attesa o alla ricerca della prima occupazione, una sorta di ammortizzatore sociale con un rilevante costo sulle spalle della collettività. I tre vecchi istituti scolastici valenzani venivano raggruppati, come tessere di un mosaico, nell’Istituto di Istruzione Superiore “B.Cellini”, al cui interno, si trovavano le sezioni del liceo scientifico, dell’istituto tecnico commerciale e dell’ istituto statale d’arte, che poi diventerà liceo artistico.

La maggior parte delle imprese orafe preferiva ormai affidarsi a robusti negoziatori, che garantivano un accesso più efficiente e sicuro ai mercati nazionali e internazionali. Si assisteva, inoltre, alla graduale scomparsa di una generazione di imprenditori che avevano costruito il successo di Valenza nel dopoguerra. Questi pionieri, animati da spirito d’iniziativa e da una profonda conoscenza del settore, avevano affrontato sfide di ogni genere, e sono stati capaci di trasformare un piccolo centro in un polo di eccellenza orafa riconosciuto a livello mondiale. La loro eredità è stata preziosa e sarebbe dovuto essere maggiormente valorizzata, promuovendo il passaggio di competenze e conoscenze alle nuove generazioni di imprenditori.

In questo scenario in evoluzione, solo le imprese leader, capaci di innovare e di adattarsi ai cambiamenti del mercato, riuscirono a intraprendere nuove strade e a mantenere la propria competitività. Altre aziende, invece, accompagnate da un livello qualitativo verso il basso, faticarono a guardare al futuro, rischiando di rimanere ancorate a modelli di business obsoleti. Nel frattempo, anche l’AOV stava perdendo un certo smalto, aveva smarrito la visione globale ed era sempre meno riconosciuta, forse avrebbe dovuto autoriformarsi e tornare all’oggetto fondamentale dei suoi compiti.

L’economia di Valenza, alla fine del XX secolo, si trovò perciò ad affrontare sfide significative che minacciavano il contesto stesso della società. La pressione fiscale gravante sulle aziende, unita a un costo del lavoro percepito come eccessivo, scoraggiava nuove assunzioni e contribuiva a un clima di incertezza. Questa situazione portò rapidamente al superamento della soglia psicologica dei mille disoccupati, un campanello d’allarme che suonava sinistramente per il futuro della città. La disoccupazione, in costante ascesa, segnò un incremento preoccupante del 18% in un breve lasso di tempo, evidenziando la fragilità del mercato del lavoro locale. Le partite IVA nel 1991 erano 3.699 (in provincia 67.672). Ma la piena occupazione cominciava a non essere più tale.

Nel 1992, le statistiche rivelavano un quadro ancora più dettagliato della crisi. I settori più colpiti erano quelli degli operai e degli addetti all’oreficeria, con una cifra allarmante di 300 disoccupati. A ciò si aggiungeva un’inattesa ondata di disoccupazione intellettuale, anch’essa quantificata in 300 persone, alimentata da un sistema scolastico apparentemente incapace di preparare i giovani alle reali esigenze del mercato del lavoro. Questa sovrapproduzione di figure professionali non richieste esacerbava ulteriormente la competizione e la frustrazione tra chi cercava un’occupazione.

I dati ufficiali del novembre 1991 confermavano la gravità della situazione: 649 persone erano iscritte nelle liste di collocamento a Valenza. Analizzando più da vicino le cifre, si scopriva che tra i residenti, 518 risultavano disoccupati, a fronte di 8.621 occupati. Tuttavia, la vera portata della crisi emergeva l’anno successivo. Nel novembre 1992, si registrava un aumento vertiginoso del 50% degli iscritti alle liste di collocamento, portando il totale a 954 persone in cerca di lavoro. Le aziende orafe, un tempo motore dell’economia locale, non solo avevano smesso di assorbire nuova manodopera, ma erano costrette a licenziare parte del proprio personale a causa della mancanza di commesse.

Un’analisi più ampia dell’evoluzione economica di Valenza nel periodo compreso tra il 1991 e il 2001 rivelava un cambiamento strutturale significativo. Mentre il settore dei servizi mostrava una crescita incoraggiante in termini di occupazione, il settore del commercio subiva una contrazione preoccupante. Questa trasformazione economica richiedeva un ripensamento delle strategie di sviluppo e una maggiore attenzione alla riqualificazione professionale dei lavoratori. Parallelamente, la tradizionale figura del «viaggiatore con la valigia», venditore ambulante di preziosi, si trovava a fronteggiare difficoltà crescenti, testimoniate da situazioni sempre più complesse e da un inesorabile declino della professione. La scomparsa di questa figura iconica rifletteva un cambiamento profondo nelle dinamiche di mercato, con una crescente preferenza per canali di vendita più strutturati e consolidati.

Tuttavia, l’onda d’urto più devastante per la città dell’oro arrivò inaspettatamente il 12 novembre 1991. Il talk-show televisivo “Profondo Nord”, andato in onda da Valenza, si trasformò in un vero e proprio cataclisma mediatico, capace di sconvolgere la vita della comunità e di innescare una serie di reazioni incontrollate che ebbero un impatto negativo sulla situazione politica ed economica. La trasmissione sollevò pubblicamente il problema dell’evasione fiscale nell’oreficeria valenzana, gettando un’ombra di sospetto sull’intera categoria e danneggiando l’immagine della città. La vicenda, sconcertante e dolorosa, è un ricordo che molti a Valenza preferirebbero dimenticare, un capitolo oscuro nella storia di una comunità laboriosa e orgogliosa.

Le accuse di evasione, sebbene veritiere in alcuni casi, ebbero un impatto sproporzionato sull’intera economia, contribuendo a un clima di sfiducia e incertezza che ostacolò ulteriormente la ripresa. La cittadina di Valenza, rinomata per la sua tradizione orafa e per il contributo al lusso italiano, si trovò improvvisamente sotto i riflettori impietosi di una trasmissione televisiva nazionale. Le telecamere, anziché esaltare l’artigianato e la maestria degli orafi, puntarono l’obiettivo su una questione scottante: l’evasione fiscale.

La trasmissione, guidata dal noto conduttore Gad Lerner, scosse profondamente la comunità valenzana. Nonostante operassero come qualsiasi altra impresa, pagando teoricamente le stesse tasse, alcuni esponenti del settore orafo dimostrarono, agli occhi attoniti di un paese che li osservava attraverso lo schermo, una sfrontatezza che rasentava l’indignazione. Negarono l’evidenza dei fatti, producendo una serie di gaffe imperdonabili che contribuirono a peggiorare ulteriormente la situazione.

Gli interventi, spesso goffi e pieni di perifrasi, di figure di spicco locali, sapientemente sollecitati dalle provocazioni di Lerner – celebri rimasero le sue telefonate ai banchi metalli per carpire la quotazione giornaliera dell’oro, sia quella ufficiale che quella sommersa – proiettarono un’immagine distorta e decisamente negativa della città, scatenando un vespaio di polemiche devastanti che ebbero ripercussioni sull’intera comunità.

Durante il programma, Lerner non esitò a dichiarare che l’evasione fiscale a Valenza era un fenomeno interclassista, insinuando che tanto gli imprenditori quanto i dipendenti fossero coinvolti in pratiche illecite per sottrarsi al fisco. Un altro momento ad alto impatto emotivo fu lo srotolamento in diretta di un lungo tabulato contenente i nomi di oltre 300 presunti evasori valenzani, un gesto che scosse le coscienze e alimentò ulteriormente la rabbia popolare. A ciò si aggiunse l’intervento incisivo del segretario della CGIL, Fausto Bertinotti, il quale, con tono risoluto, propose che gli artigiani, orafi compresi, fossero tenuti a liquidare le tasse basandosi sul reddito dichiarato dai loro dipendenti, una proposta drastica che mirava a smascherare eventuali discrepanze e a responsabilizzare gli imprenditori.

I protagonisti politici ed economici di Valenza, inizialmente schierati a difesa del loro settore con giaculatorie di anime belle, si trovarono improvvisamente intrappolati in un vortice di polemiche. In seguito, nel tentativo di riparare i danni d’immagine, si limitarono a farfugliare imbarazzate prese di distanza dalle posizioni iniziali, abbandonando, di fatto, la strenua difesa di una loro presunta purezza fiscale, come colti da una sorta di liberazione mistica.

La trasmissione lasciò un segno indelebile nella storia di Valenza, aprendo un dibattito profondo sull’etica fiscale e sulle responsabilità individuali e collettive. Il danno d’immagine, tuttavia, fu incalcolabile e richiese anni di lavoro per essere parzialmente risanato. La vicenda divenne un monito, un esempio di come un’intera comunità possa essere messa alla berlina a causa delle azioni di pochi.

Nel 1995, l’analisi dei dati fiscali relativi al comune di Valenza rivelava una situazione apparentemente paradossale. L’imponibile medio IRPEF per contribuente valenzano si attestava a 18,660 milioni di lire, un valore inferiore alle medie riscontrate a livello provinciale, regionale e nazionale. Allo stesso modo, l’imposta IRPEF media per contribuente, pari a 3,069 milioni di lire, si posizionava anch’essa al di sotto delle soglie medie osservate nei contesti territoriali più ampi. Tuttavia, un’analisi più approfondita, che tenesse conto di altri fattori economici, portava a conclusioni sorprendenti. Considerando il quadro economico complessivo, il reddito disponibile procapite del 1995 a Valenza superava i 30 milioni di lire. Questa cifra rappresentava un incremento significativo rispetto alle medie di riferimento: un 17% in più rispetto al reddito disponibile procapite provinciale, un 14% in più rispetto a quello regionale e un notevole 35% in più rispetto alla media nazionale. Questa discrepanza tra i dati fiscali e il reddito disponibile reale suggeriva la presenza di dinamiche economiche particolari all’interno della comunità valenzana.

Negli anni in questione, emergeva un’altra anomalia nella dichiarazione dei redditi: una parte significativa degli imprenditori orafi e dei commercianti locali di vario genere dichiarava redditi inferiori a quelli percepiti dai dipendenti. Il reddito medio più consistente sembrava provenire dai pensionati, una constatazione che sollevava interrogativi sulla composizione del marcato economico locale e sulle modalità di dichiarazione dei redditi.

Un’ulteriore conferma della peculiarità della realtà valenzana proveniva da una rilevazione effettuata nel 1999. I depositi bancari nel comune raggiungevano la cifra considerevole di 543 miliardi di lire, rappresentando il 7,55% del totale provinciale, nonostante la popolazione valenzana non raggiungesse il 5% di quella dell’intera provincia. Ancora più rilevante era il dato relativo agli impieghi bancari, che ammontavano a 1.067 miliardi di lire (rispetto ai 925 miliardi del 1998), una cifra senza paragoni con centri di dimensioni simili.

Questi dati bancari sottolineavano l’importanza del settore orafo e delle pietre preziose nell’economia locale. Valenza si configurava come un centro nevralgico per la lavorazione di questi materiali preziosi. Si stimava che nell’area di Valenza venisse lavorato il 12% dell’oro importato in Italia e un impressionante 75% delle pietre preziose, provenienti principalmente da importanti centri di commercio e lavorazione quali Anversa, Tel Aviv e l’India.

In sintesi, l’analisi dei controversi dati relativi a Valenza nel periodo considerato rivelava un’economia locale dinamica e complessa, caratterizzata da un divario tra i dati fiscali ufficiali e la ricchezza reale, una forte concentrazione di attività nel settore orafo, e una notevole capacità di accumulazione di capitali. Questi elementi suggerivano la necessità di un’analisi più approfondita delle specificità socio-economiche del territorio valenzano per comprendere appieno le dinamiche che lo caratterizzavano, abbandonando i soliti triti argomenti.

Grazie al contributo di tutta la cittadinanza e a una serie favorevole di coincidenze, si costruiva la nuova sede per l’Avis Primo Soccorso in viale Manzoni, una struttura luminosa e accogliente la cui inaugurazione avveniva il 15 dicembre 1991.

L’afa estiva avvolgeva pure Valenza, accentuando la sensazione di languore che permeava la vita culturale cittadina. L’astinenza cinematografica, lamentata da molti appassionati, sembrava destinata a durare, finché nel 1992 l’iniziativa coraggiosa di alcuni amanti del cinema dava vita all’arena estiva nel chiostro della scuola Carducci, un’oasi di pellicola sotto le stelle.

Nel frattempo, l’amministrazione comunale, forse spinta dalla necessità di riaffermare la propria presenza e vitalità, si imbarcava in una serie di progetti, non sempre accolti con favore. Come il costoso e criticato progetto di ristrutturazione del Teatro Sociale, una vera e propria scommessa architettonica, che divideva l’opinione pubblica tra chi vedeva in esso un investimento nel futuro culturale della città e chi lo considerava uno spreco di denaro pubblico.

Parallelamente, veniva lanciata la campagna di marketing territoriale “Valenza è…”, un tentativo di rilanciare l’immagine della città e supportare il commercio locale, ma percepita da molti come una chimera, una promessa irraggiungibile in un contesto economico sempre più difficile. L’approvazione del nuovo piano regolatore, un documento ambizioso e complesso, si presentava come un apologo perfetto di modernità, un manifesto di progresso urbano che, tuttavia, sollevava dubbi e perplessità tra i cittadini.

Il 1993 si profilava come un anno di sfide. In un contesto socio-economico ostile, caratterizzato da incertezze e difficoltà, iniziava la raccolta differenziata dei rifiuti, un piccolo passo verso una maggiore consapevolezza ambientale. Veniva inaugurata la palestra di regione Fontanile, un nuovo spazio dedicato allo sport e al benessere fisico, mentre si concludevano i lavori del nuovo edificio destinato ad ospitare l’I.T. Noè, un investimento importante nell’istruzione dei giovani valenzani. Tuttavia, l’ombra del debito incombeva sull’Ospedalino, con un passivo che superava il miliardo di lire, un fardello finanziario pesante che metteva a rischio la sua stessa esistenza.

In questo scenario contrastante di fine Novecento, emergeva perciò un’atmosfera carica di paradossi. C’era un che di pirandelliano tra il dire, il fare e l’apparire, una discrepanza tra le promesse fatte, le azioni intraprese e la percezione che la cittadinanza ne aveva. E, a complicare ulteriormente le cose, persisteva una passione innata per le divisioni, un’attitudine a polarizzare le opinioni e a creare fazioni contrapposte, rendendo difficile raggiungere un consenso e affrontare unitariamente le sfide del presente e del futuro. Valenza si dibatteva tra ambizioni di modernità e le difficoltà di una realtà complessa e frammentata, ma per qualcuno è stata l’occasione per crescere davvero.

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